- Un Racconto di Paolo Cortesi
Preghiera a Dio
La notte del 5 agosto 1934, alle tre di notte del 5 agosto 1934, Ernestina Duranti scelse il coltello.
Lui, il marito, Luigi, era tornato ancora una volta ubriaco. Lei stava sveglia ad aspettarlo, con gli occhi che le bruciavano per il sonno negato e un ronzio acuto e discontinuo nelle orecchie che sembrava il sibilo del silenzio di quella notte calda. Aspettava alzata perché doveva vedere com'era la sbornia del marito: certe volte rincasava piangendo, lamentoso e con brevi gesti incerti, come se tutto in lui si fosse rimpicciolito, o ammalato. Ma altre volte, ed era più spesso, tornava furibondo, strillava e dava gran calci ai muri delle case lungo la strada, e lei lo sentiva arrivare di lontano e iniziava ad avere paura.
Allora, si affacciava senza mostrarsi e guardava Luigi: le faceva schifo. Le faceva ribrezzo la sua figura scura e gonfia, da cui spiccavano solo la pancia e i capelli arruffati, come se fossero stati tirati. Lo vedeva barcollare, restare a lungo immobile, tentando di trovare equilibrio sulle gambe deboli; restava fermo, come assorto, mentre invece era stordito dal vino e non camminava perché non poteva vedere niente.
Lo vedeva accostarsi ad un angolo, portare le mani al ventre, sbottonarsi a fatica i calzoni e pisciare. Con un braccio si appoggiava al muro. Il rivolo correva, luccicante, nero, verso il centro della strada; e anche pisciando lui ondeggiava e parlava, urlando qualcosa e non pareva nemmeno voce di uomo.
Lei stava nascosta dietro le persiane, e lo guardava e lo detestava sempre di più mentre contava i minuti che la separavano dal suo entrare in casa. Sentiva che lui tentava di infilare la chiave nella serratura, ma non ci riusciva. Prima, lui cercava anche mezz'ora di aprire da solo; ora invece, dopo avere preso la chiave dalla tasca, iniziava a gridare e a dare pugni terribili alla porta.
Lei, mesi prima, accorreva in fretta, perché non voleva farlo arrabbiare, ma ormai sapeva che l'avrebbe picchiata anche se gli avesse aperto subito, così lo lasciava fuori di casa più a lungo. Luigi gridava, ruttava; i vicini, nel caseggiato, non uscivano più sulle scale e nessuno diceva più niente, perché tutti avevano paura di lui che era un ubriaco cattivo e che, sobrio, era una spia dell'Ovra e poteva rovinare chi avesse voluto.
Anche quella notte del 5 agosto avvenne tutto come sempre. Lo sentì arrivare prima ancora di vederlo svoltare l'angolo della strada. Cantava la stessa strofa d'una canzone, la ripeteva all'infinito e si capiva che gli piaceva tanto, mentre a lei sembrava come il verso delle bestie che non cambia mai.
Una finestra d'una casa si accese: il rettangolo giallo s'aprì nel buio confuso del palazzo; un uomo in canottiera, calvo, guardò giù; aveva gesti irosi, muoveva le mani ed avrebbe di certo imprecato, o scaraventato un catino d'acqua, ma vide che era Luigi Tanacci, il sarto che faceva il confidente dell'Ovra (lo sapevano tutti e a lui non dispiaceva), così disse qualcosa a voce bassissima e tornò dentro. La luce si spense. La strada tornò muta, come un varco scavato in una montagna nera.
Luigi Tanacci fece due passi sbilenchi in avanti, poi altri due passi indietro. Poi restò fermo, ma con la schiena un po' curva, le braccia penzoloni, cercando l'equilibrio, come fanno quelli che si trovano sulle barche. Alzò la testa, con la nuca toccò le spalle. Urlò qualcosa, mentre arruffava la camicia, mentre frugava nelle tasche dei calzoni bagnati di piscio.
Entrò dal portone che era aperto e cominciò a salire le scale. Solo una lampadina, appesa a un filo elettrico contorto, faceva luce, ma era una luce stinta, come trattenuta, che faceva un po' di giallo sul pavimento dei pianerottoli e accendeva le chiazze di muffa viola nelle pareti.
Ernestina stava dietro la porta chiusa, vi era appoggiata con la schiena, teneva le mani giunte davanti alla bocca e pregava: "Signore, fallo morire. Schiantalo d'un colpo secco prima che tocchi questa porta. Per amore di Gesù, ammazzalo, questo porco maledetto. Aiutami".
Lui arrivò. Il primo calcio che dette alla porta fece balzare Ernestina che trattenne il respiro. E poi lui dette altri calci e altri pugni, mentre gridava:
-Apri, apri, brutta scimmia! Apri schifosa! Apri cagna! Apri ché ti spacco la testa!-
Ernestina pensava: "E se lo lasciassi fuori tutta la notte? magari gli passa la sbornia...", ma concluse che sarebbe stato peggio, che avrebbe di certo sfondato la porta e la sua furia sarebbe stata maggiore. Allora, già sapendo precisamente come e quanto l'avrebbe colpita (perché, dopo un po', lui si faceva male alle mani e si stancava, e si buttava bocconi sul letto e dormiva con la bocca aperta da cui usciva la saliva acre di vino), già sapendo che il primo schiaffo sarebbe stato alla faccia, tra zigomo e naso, aprì la porta. Alle tre di notte, Luigi crollò a letto; l'aveva pestata così tanto che si era spaccata la pelle sulle nocche della mano destra. Ernestina, allora, andò in cucina. Mise uno strofinaccio sotto il rubinetto e lo bagnò, poi se lo premette sulla faccia, sulle labbra; era tutta gonfia e sentiva il sangue battere sotto gli ematomi ancora caldi. Aprì il cassetto della credenza, dove c'erano le poche posate buone del servizio che erano rimaste (le altre se l'era vendute tutte lui, per pagarsi il vino). E guardò un coltello: la lama era lunga e sottile, ma non tanto da sembrare fragile, era anzi una lama larga due dita, lucente, con la punta come una sciabola; sembrava la scimitarra del sultano che aveva visto, una volta, al cinematografo.
Scelse quel coltello, lo nascose nel cassetto del suo comodino, di fianco al letto, e giurò a dio che, alla prossima volta che lui fosse tornato ubriaco e l'avesse battuta, lei lo avrebbe ucciso: gli avrebbe infilato tutto il coltello nel cuore mentre stava dormendo. E se anche la mandavano alla fucilazione, non le importava niente, perché tanto quella non era vita da vivere.
Nelle giornate seguenti, come sempre, Luigi non ricordò neppure l'ubriacatura e le botte. Era come se non fosse successo niente. Usciva al mattino per aprire la bottega, tornava ad ora di pranzo e scambiava anche qualche parola con la moglie: -Oggi è venuto a farsi la barba il cavalier Rosati. Quello che ha la macchina.- ; -Ma com'è calda questa estate!- ; - Buone queste polpette...-
Lei rispondeva appena "sì" e "no". Lui vedeva i lividi, il grumo bruno di sangue cristallizzato che si apriva, come un piccolo minerale, sul labbro; lui vedeva la palpebra tumefatta, ocra, che restava semiaperta tanto era enfiata. Ma non diceva niente.
Qualche tempo prima, Luigi aveva promesso a se stesso che non avrebbe più bevuto e che avrebbe smesso di sfinire a botte quella poveretta che non aveva nessuna colpa. Poi, però, il gusto di continuare a fare quello che voleva fu troppo forte. Rinunciare al bere gli sembrò un sacrificio eccessivo e inutile. E, in fondo, due sberle ogni tanto non avevano mai ammazzato nessuno; così - con pensieri che non erano un vero ragionamento ma piuttosto una sensazione cui non si presta troppa attenzione perché naturale, come la fame o la sete - il proposito di non bere più svanì; divenne tanto remoto che lui, quando ci ripensava, quasi si trovava ridicolo.
Gli piaceva bere, come a tutti gli uomini, e non era colpa sua se il vino e la grappa gli davano alla testa peggio che ad altri. Non si sentiva colpevole di quelle ubriacature più di quanto si sarebbe sentito responsabile di capogiri o di una cattiva digestione: era natura, era fatto così. E le mogli devono avere pazienza, pensava confusamente, e lei gli doveva tutto: un appartamento che non avevano nemmeno i professori del liceo mentre lui era arrivato solo alla terza elementare; poi lei aveva vestiti per l'estate e per l'inverno, scarpe senza buchi, mangiavano bene. Non si sentiva in difetto per niente.
Dunque, Luigi concluse che la sua passione per il bere, e le cose che faceva dopo, erano sì qualcosa di rumoroso e non proprio bello da vedere, ma c'era molto di peggio e già nel loro caseggiato lui poteva citare come esempio più riprovevole un tale di nome Rebonati Adelmo che era scappato con una ballerina del circo, lasciando moglie e tre figli piccoli.
La sera del 13 agosto 1934, Luigi andò all'osteria. Ernestina capì che sarebbe tornato ubriaco perché, ormai, sapeva interpretare un certo sguardo incupito e distante, come se stesse pensando ad affari strani e difficili. Appena lui uscì, Ernestina andò al comodino, lo aprì e guardò il coltello che aveva avvolto in un tovagliolo candido. Lo prese in mano e avvertì il peso, la forma piena e liscia che riempiva la mano stretta attorno al manico tornito.
-Questa notte glielo pianto nel cuore.- disse. Non lo pensò soltanto, ma lo disse proprio, a voce bassa ma chiaramente, come lo annunciasse in segreto a qualcuno lì vicino a lei.
Lui tornò verso le quattro. Ma, quella volta, non strillava: piagnucolava, si faceva il segno della croce, cadeva in ginocchio e farfugliava. Lei lo osservò stupita, ma sempre disgustata e sempre col timore che, da un momento all'altro, lui iniziasse a batterla. Poteva accadere, perché un ubriaco è imprevedibile e fa spesso quello che si teme di più. Quella notte, però, Luigi aveva una sbronza triste e fiacca. Bussò alla porta di casa con pochi colpi nemmeno troppo forti, tentò di abbracciare la moglie ma lei lo scostò con le dita tese e girò la faccia verso il muro per evitare il suo fiato acido.
Sentì, tra i gemiti, delle parole: -Perdonami, perdonami... perdonatemi tutti....- E ancora, mentre si strisciava il fazzoletto sugli occhi: -Sono una canaglia... sono una spia... quanti ne ho fatti finire in galera!... quanta gente ho fatto piangere... sono un farabutto... -
Allora, Ernestina, senza dire nulla, gli cinse la vita con un braccio e con l'altra mano si mise il suo braccio sulle spalle; lo portò a letto e lo distese; lui lasciava fare e ripeteva con la voce stridula:
-Quanto sei cara... quanto sei buona con me... non merito... non merito niente....-
Ernestina iniziò a spogliarlo. Quando sbottonò la giacca, esalò un soffio caldo e umido, un sentore marcio di sudore e di sporcizia che le dette disgusto. Lui tentò di accarezzarle la testa; lei gli fermò la mano e il braccio cadde molle e pesante sul materasso; lui aveva iniziato a russare.
Ernestina gli sfilò la camicia, gli tolse la canottiera giallastra. Appoggiò l'orecchio destro al petto per sentire dov'era il cuore. Prese il coltello, lo puntò, dritto perpendicolare, nel punto del torace che aveva individuato; mise le due mani sul manico del coltello e vi si appoggiò con tutto il peso del corpo, a braccia rigide. La carne si aprì con un colpo duro di lacerazione, il sangue uscì prima come un piccolo sputo poi non se ne vide più perché colava lento.
Luigi inarcò la schiena e dette un grido atroce; lei gli mise una mano sulla bocca e con l'altra spingeva e ruotava il coltello dentro il petto. Poi lasciò la lama quasi completamente dentro il corpo e portò le due mani alla gola dell'uomo; lo strozzava.
Lui fece qualche gorgoglio brutto, ebbe alcuni scossoni e lei pensò, per un istante, ai conigli che ammazzava con una bastonata dietro al collo - mentre li teneva per le orecchie - e che si dimenavano in guizzi velocissimi ma brevi.
Tutto il lenzuolo era inzuppato di sangue, che cadeva a filamenti larghi sul pavimento. Le sembrò che anche il sangue puzzasse di vino. Andò alla finestra aperta; respirò forte e restò in piedi, ferma, appoggiata, a guardare la strada deserta piena di angoli colmi d'ombra. C'era solo un lampione, all'altro capo della via, e vide tante falene e tante farfalle che giravano frenetiche in cerchi obliqui.
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di Paolo Cortesi