Racconti

di Paolo Cortesi

  • Un Racconto di Paolo Cortesi

    Il Dubbio del Conte

    Aspettavano il signor conte Pellegrinetti da una decina di giorni, da quando il fattore Morini aveva annunciato la visita in modo confuso e un po' misterioso, e non si capiva se lui ne sapeva poco o se non voleva ancora dividere il suo segreto con i contadini.
    Poi anche il prete, dopo la messa, cominciò a ripetere:
    -Il signor conte ci farà presto l'onore di una visita.-, e il tono era festoso ma anche persuasivo, compunto e si capiva che il prete chiedeva di fargli fare bella figura.
    Il conte Leopoldo nei suoi cinquanta anni di vita non era mai stato una sola volta nelle tante vaste terre che possedeva. Suo padre Urbano, morto proprio il primo giorno del 1900, aveva chiamato quel suo unico figlio al capezzale e gli aveva fatto giurare che si sarebbe interessato, finalmente, di possedimenti e palazzi, perché fino a quel momento non l'aveva fatto. Fino a quel gennaio 1900, Leopoldo Pellegrinetti non aveva mai voluto sapere niente di contabilità e investimenti, non conosceva le proprietà di famiglia e quando il padre cercava di fargliene un resoconto completo, lui si annoiava e si distraeva tanto che il vecchio aveva smesso di tentare.
    -Bisogna tornare alla terra. Bisogna tenere alla terra. Perché la terra è la sola sorgente e garanzia di ogni ricchezza, morale e materiale.- diceva spesso Urbano al figlio, che una volta ribatté:
    -Come faccio a tornare dove non sono mai stato?- e lo disse sorridendo, fiero della sua arguzia. Invece il padre attaccò un discorso accorato, lunghissimo, ed aveva gli occhi afflitti.
    -Quel coglione si mangerà tutto in due anni con le puttane e le carte.- diceva sempre più spesso il conte padre. In effetti, Leopoldo non aveva fatto altro che questo: consumare i soldi della famiglia, vivere sul lustro e il nome della famiglia. Pareva impegnato a recitare una parte: il rampollo dissipatore, che non ha alcuna incertezza e vergogna nell'essere mantenuto e nell'evitare anche la sola parola lavoro.
    Il vecchio conte aveva fatto uscire i medici ed aveva voluto a sé quello che i domestici chiamavano ancora il contino, sebbene avesse i capelli grigi e, alto e tumido, pesasse più di un quintale.
    Leopoldo andò, seccato e frastornato e temendo di dover vedere il vecchio morirgli davanti.
    Pensava, mentre entrava nella camera quasi buia, dove ristagnava l'aria greve e rancida delle stanze dei malati, pensava che avrebbe dovuto fare un gesto affettuoso, prendere le mani del moribondo, forse addirittura ci si aspettava che lo baciasse in fronte. C'erano lì accanto alcuni parenti, c'erano i domestici, i medici e due infermiere, c'era il prete don Fumagalli.
    Lui doveva recitare la parte del figlio affranto. Il vecchio fece appena in tempo a fargli giurare che avrebbe visitato tutti i poderi che, di lì a poco, sarebbero diventati suoi.
    Quando il vecchio conte iniziò a rantolare, Leopoldo scappò dalla camera, urlando per chiamare i medici che spinse dentro. Poi corse nel salotto e si buttò sfinito sul divano, e restò a guardare il quadro sopra il caminetto e lo fissò così a lungo che le Muse e Apollo cominciarono ad ondeggiare come se le vedesse dietro una fiamma.
    Leopoldo aveva rimandato quanto più a lungo possibile la visita alle sue terre. Ma non poteva continuare a farlo. Aveva giurato al padre morente, e il giuramento fatto sul letto di morte è due volte sacro: don Fumagalli glielo aveva spiegato molto chiaramente. Poi glielo aveva ricordato anche sottovoce, durante la confessione.
    Il conte Leopoldo Pellegrinetti arrivò dunque al suo podere Spadone nella tarda mattinata del 22 maggio 1900.
    Scese dal calesse e subito il fattore Morini gli andò incontro. Il conte si asciugava il sudore sfregando irosamente il fazzoletto sulla nuca, sul mento, sulla bocca, sulla fronte. Diceva:
    -Ma che caldo! Che caldo maledetto! Se sapevo che era così caldo, rimandavo questa gita all'autunno!-
    Morini fece un inchino e, indicando con un grand'arco del braccio i contadini allineati, attaccò il discorso di benvenuto:
    -Signor conte eccellenza, i contadini che hanno l'onore di lavorare per voi la vostra terra vi porgono il saluto della gratitudine e della riconoscenza.-
    Queste poche solenni parole le aveva ideate don Fumagalli, che se le assaporava nella bocca chiusa mentre Morini le declamava affannato.
    Il conte si passò ancora due tre volte il fazzoletto sulla faccia, guardò stupefatto Morini come se gli fosse apparso in quell'istante emerso dal suolo e fece:
    -Eh?-
    Morini riprese:
    -Signor conte eccellenza, i contadini che hanno l'onore...-
    Pellegrinetti lo interruppe:
    -Sì sì. Grazie. Ho capito. Cosa dobbiamo fare adesso? Avete un po' d'acqua fresca?-
    Il fattore fu terrorizzato: non aveva pensato alla sete del conte. Restò senza parole, con la bocca semiaperta a guardare la faccia lustra di sudore del conte, il quale domandò ancora:
    -Si può bere?-
    Morini si rivolse ad una donna della fila:
    -Vai a prendere dell'acqua fresca per il signor conte!-
    La donna, si chiamava Ada Canestri, chiese timorosa:
    -L'acqua del pozzo?-
    -No!- urlò il conte -Che pozzo? No! Non voglio mica prendermi il tifo! No! Niente pozzo!-
    -Noi abbiamo solo l'acqua del pozzo.- rispose la donna, confusa, abbattuta, come ammettesse una colpa.
    Il conte disse duramente:
    -Berrò dopo, a casa mia. Vediamo di far presto.-
    -Volete parlare con i contadini, signor conte?- gli domandò il fattore.
    -Ma...non so... sì sì...parlo con i contadini...-
    Morini e il prete avevano selezionato le persone da presentare al conte. Avevano lasciato in casa, e che non si facessero vedere, i vecchi, i malati, gli sciancati e i bambini più piccoli.
    C'era una dozzina di contadini, donne e uomini, che stavano allineati sull'aia. Avevano i vestiti della domenica, ma era comunque roba che parlava di miseria e di fatica.
    Il conte Pellegrinetti, abbigliato alla cacciatora, li guardava e teneva sulle labbra un sorriso che pareva ormai una contrazione incontrollabile dei muscoli della faccia.
    Guardava quella gente e sorrideva, ma non c'era niente di lieto in quell'incontro a cui lo aveva obbligato il padre morente. Li guardava e, in verità, gli sembravano grosse scimmie su due zampe: erano tutti un po' curvi, con la pelle scura e opaca come cuoio, gli occhi piccoli, affossati sotto la fronte bassa e schiacciati dagli zigomi alti. Avevano occhi sperduti.
    Gli sembravano veramente una specie diversa di umanità. Le mani, soprattutto, erano strane e diverse: erano grosse, anche quelle delle donne, con le dita ripiegate verso il palmo, come non potessero distenderle del tutto, con le unghie larghe.
    -Come state?- domandò ad Ada Canestri.
    Lei rispose:
    -Bene, signor conte.-
    -E cosa fate?-
    -Faccio le cose in casa. Pulisco. Tengo i bambini e preparo da mangiare.-

    Poi il conte si rivolse all'uomo accanto a lei:
    -Cosa fate?-
    L'uomo trattenne il respiro come se si preparasse ad un salto, poi rispose:
    -Io lavoro la terra del signor conte.-
    -E come fate?-
    -Faccio...lavoro la terra... la semina, il raccolto, l'aratura, tutto...il campo e l'orto...-

    A Leopoldo parve di essersi interessato abbastanza. Si rivolse al fattore e disse:
    -Tutto a posto i conti? Rende bene questo podere?-
    Morini si affrettò a rispondere:
    -Sì signor conte eccellenza. Se volete entrare un attimo a guardare i libri.-
    Il conte annuì. Soprattutto voleva andare un po' al fresco.
    Quando furono dentro casa, Morini gli aprì diversi registri grandissimi, aperti coprivano tutto il tavolo. Il conte guardò un po' le righe delle cifre, che gli parvero file di formiche. Si stancò presto e, mentre Morini si atteggiava ad amministratore fedele e devoto, iniziò a guardare fuori dalla finestra.
    I contadini erano ancora là allineati, perché nessuno gli aveva detto di andarsene. Pellegrinetti vide che stavano fermi, in attesa, sospesi e incerti. Sembravano tristi.
    -Quanto lavorano al giorno?- domandò Pellegrinetti.
    Morini fece:
    -Come scusi?-
    -Quante ore lavorano tutti i giorni?-
    -Dipende dalle stagioni. Anche tredici quattordici ore, delle volte.-
    -E come fanno?-

    Morini non sapeva che dire. Poi:
    -E' il lavoro. Il loro lavoro è fatto così.-
    Il conte guardò la terra che si perdeva fino alla linea dell'orizzonte: era come un mare calmo denso verde e brillante. La terra era gigantesca, teneva su la volta del cielo, e certamente quei piccoli uomini dovevano sudare sangue per avere dalla terra la ricchezza morale e materiale che diceva il vecchio conte Urbano.
    La terra era infinita; anche il vento più veloce non poteva percorrerla tutta. E quelle povere figurine nere si spaccavano la schiena sotto il sole per chiedere alla terra che nutrisse la gente.
    Confusamente, il conte Leopoldo pensò di cominciare a capire cosa intendeva dire suo padre. Non sapeva bene come esprimerlo, ma sentiva che la terra era davvero la madre, che poteva fare ogni cosa, buona o cattiva, e che i contadini lavoravano tanto per farsela amica, per chiederle -in cambio di tanta fatica- il pane e il vino.
    E quella gente, pensava disordinatamente, non erano povere bestie, come sembravano, ma erano nati come tutti, rosa e teneri, e poi erano cambiati diventando parte della terra a cui davano la loro vita. Solo adesso, vedendo i loro occhi fermi, comprendeva che quegli uomini e quelle donne, che pure lo ringraziavano, avevano una dura dignità solenne e dolorosa.
    Forse, lui avrebbe dovuto ringraziare loro: non solo perché lavoravano tredici ore al giorno e facevano ricco lui, ma anche perché loro custodivano e curavano e celebravano il dono immenso eterno della grande terra portatrice di frutti. Questo pensava, assorto, quasi stranito, osservando la terra che rifletteva la luminosità del sole così intensa e piena che pareva essa fare luce.

    (Quello stesso giorno, dieci ore più tardi, il conte Leopoldo Pellegrinetti era a letto con la cantante Aurora Frou Frou, che era la prima attrazione del Gran Café de Paris di Bologna, e le promise che con il ricavato della vendita del podere Spadone le avrebbe regalato l'appartamentino in Via Saragozza).