- Un Racconto di Paolo Cortesi
L'Interrogatorio della Contessa Maria
- La contessa alzò appena lo sguardo, ma non abbastanza a lungo perché Quaglia potesse vedere il lampo di ira muta che brillava, come un velo di lacrime, sulla pupilla ferma.
Così che l’ispettore riprese a parlare dopo la brevissima pausa con una tranquillità che non avrebbe avuto altrimenti.
La contessa Maria se ne stava seduta sull’angolo della sedia, esibendo la sua dolorosa degnazione. Aveva voluto vedere così poco di quell’ufficio (quasi che le immagini, i ricordi di quel posto le si potessero infilare nel sangue come un’infezione), che non avrebbe saputo descriverlo.
Eppure era lì, malamente seduta, irosa e con le guance calde di febbre, da quasi due ore.
L’ispettore Cosimo Quaglia le aveva fatto dare un bicchiere d’acqua, poi un caffè, poi ancora aveva chiamato – su richiesta della contessa – una sua cameriera che le aveva portato un cachet per l’emicrania. Ora la domestica stava ad attendere nella camera accanto, con tre poliziotti che le stavano attorno e le parlavano sorridendo di cinema e pasticcerie alla moda.
La contessa Maria dette un colpo di tosse; si portò il fazzoletto alle labbra. Disse:
-Purtroppo la mia emicrania non sembra diminuire neppure con il cialdino che ho preso; vi prego dunque di lasciarmi andare a casa.-
Quaglia restò un poco senza dire niente. Rimase fermo come se nessuno avesse parlato, con le mani giunte posate sulla sua scrivania. Guardò la contessa, che non lo guardava; guardò De Santis che verbalizzava e Marinoni che stava in piedi vicino alla porta chiusa, immobile, come un oggetto che non serviva a nulla ma ci doveva stare, per la completezza dell’arredamento dell’ufficio di Pubblica Sicurezza, come i ritratti del duce e del re imperatore.
-Ma capirete, signora contessa…- iniziò a dire, sottovoce, l’ispettore, poi non continuò perché sperava che la signora capisse e dicesse il resto. Ma la contessa stava zitta, aveva solo abbassato un poco di più la testa.
-Fatemi chiamare un’automobile di piazza, siate gentile.- fece la signora, ed il tono era precisamente quello che usava, da almeno trent’anni, con la servitù.
Quaglia guardò De Santis e Marinoni, i quali lo fissavano inerti.
-Signora contessa, temo che… Vorrei dire che…insomma non so se sarà possibile subito…-
La contessa Maria strinse la labbra.
-Vedete, signora contessa. Non abbiamo ancora chiarito puniti essenziali, essenzialissimi, della vostra storia.- diceva l’ispettore; chi fosse entrato nella stanza in quell’istante avrebbe pensato che stava parlando ad un caro malato che tentava di indurre a prendere la medicina – Vedete, signora contessa, voi non avete detto dove eravate mentre il signor conte Ottavio decedeva…-
Tacque. Nella stanza rancida di migliaia di sigarette fumate negli anni, si udiva il ticchettio dell’orologio a parete. Era un suono nero come un calabrone. Quaglia riprese:
-Voi, signora contessa, avete detto che siete accorsa al letto del signor conte quando avete udito le sue grida. Poc’anzi, però, avete dichiarato che quando il signor conte vostro marito defungeva, voi eravate nella serra. E prima ancora avete detto che vi trovavate in cucina, a dar disposizioni per la cena.-
Silenzio, ancora. Dalla porta chiusa, dalle finestre chiuse arrivavano rumori e voci che non si potevano distinguere, erano come remoti suoni di officine, di costruzioni: sembrava che molta gente lavorasse, assai lontano.
-E ancora, scusate, non avete detto nulla in merito alle macchie di sangue sulla vostra vestaglia, sulle pantofole. Macchie grandi. E, signora contessa, perché il coltello sporco di sangue che venne, evidentemente dico, impiegato per uccidere il signor conte è stato trovato sotto il vostro cuscino?-
La contessa piegò un poco la testa di lato. Socchiuse gli occhi, come se una forte luce la abbagliasse. Sospirò più forte del solito.
Quaglia restò in attesa, ma la contessa non diceva nulla.
-Signora,- disse l’ispettore con tono invariabile – l’autista Gualtiero Chianca ha dichiarato che vi ha vista uscire in giardino dalla stanza del conte. Lì, nella fontanella, vi siete lavata le mani che erano tutte imbrattate di sangue.-
La contessa mosse ancora lievemente il capo: parve voler guardare fuori dalla finestra. Davanti al palazzo della regia questura c’era il palazzo delle poste e telegrafi (regi anch'essi); fra i due edifici stava la piazza e in quel momento c’era il mercato. Se si fosse alzata dalla sedia, se avesse allungato un po’ il collo, la contessa avrebbe visto molta gente, donne soprattutto, camminare fra le bancarelle, e fermarsi, e poi andare via, e fermarsi di nuovo poco dopo. Tutto ciò aveva l’aspetto di una colonia di formiche, nella quale i movimenti sembrano misteriosi e casuali ma non lo sono.
Quaglia parlò ancora.
-La stiratrice, la…- iniziò a muovere fogli sulla scrivania. Cercava il verbale, cercava il nome, voleva essere impeccabile. Voleva far le cose per bene, perché con la contessa Maria non si poteva fare come con gli altri, che bastava alzare la voce, mettersi in piedi davanti a loro – seduti – e dare manate sulla faccia, battere i pugni sul tavolo, sulle loro spalle. Qui ci volevano i nomi precisi, i dati circostanziati. Circostanziati, dovevano essere.
-…la… la…- ripeteva Quaglia e cercava quel foglio, che trovò e lesse con voce un poco più ferma:
-…la Melnati Miranda ha dichiarato all’inquirente che voi, signora, subito dopo la morte del signor conte avete fatto una telefonata e sul ricevitore sono rimaste chiare tracce ematiche.-
Quaglia pareva dovesse parlare a lungo, ma tacque all’improvviso, come a voler fare restare sospese nel silenzio inatteso quelle parole terribili. Sangue.
La contessa portò le mani alla borsetta che teneva posata in grembo. Parve palparla, alla ricerca di qualcosa. Non ne prese nulla e non la aprì.
-Signora contessa, abbiate la compiacenza di dirmi a chi avete telefonato pochi minuti dopo la morte di vostro marito il signor conte.-
Marinoni e De Santis fissarono la donna con una attenzione quasi spaventata, come se la donna – che pure era piccolina, gracile – potesse da un momento all’altro fare chissà quale gesto folle, impossibile e violento, come spaccarsi la testa contro la finestra, o aggredire l’ispettore e strangolarlo, o mettersi a gridare e piangere, rotolandosi per terra. O prendere fuoco.
La contessa mosse appena la testa, la alzò un poco. Rispose:
-Ho telefonato a Carmine.-
La voce era trattenuta, come se fosse stata in una chiesa.
-Chi? A chi? A chi avete telefonato, signora contessa?- domandò Quaglia, che non avrebbe insistito tanto con l’interrogativo se non fosse stato sbalordito.
-A Sua Eccellenza il prefetto Carmine Scalise.- disse la donna, tranquillamente.
Quaglia chiuse le labbra. E Marinoni e De Santis lo guardarono.
Ora stavano tutti zitti. E dal mercato, là sotto, fuori, arrivò – attutito e come deformato ma ben comprensibile – il grido di una donna che strillava: “E’ così fresco che muove ancora la coda!”
La contessa Maria disse:
-Volete essere così gentile da chiamarmi un’auto di piazza?-
Quaglia fece:- Eh?- perché era come stordito; ma De Santis rispose subito: -Certamente, signora contessa.-, e andò nella stanza accanto a telefonare.
Racconti
di Paolo Cortesi